MAGGIO - Il buon Samaritano
La virtù della compassione
Il termine compassione è spesso interpretato in modo distorto, come un provare pena. Ma la compassione non è questo. Il termine deriva dal latino “cum-pati” (soffrire con, soffrire insieme) corrispondente del greco “sympátheia” (comunanza di dolore). La compassione è dunque “simpatia” per la sofferenza dell’altro, fino a divenire condivisione della sofferenza dell’altro.
La compassione si manifesta guardando in faccia chi è nella sofferenza, avvicinandolo tanto che il suo dolore diventa il mio dolore. È l’esperienza di san Francesco d’Assisi quando bacia il lebbroso e lo abbraccia. Di fronte al male, alla sofferenza dell’altro, siamo chiamati a decidere se rischiare di perdere il nostro tempo, di rimanere coinvolti, oppure pensare che non ne valga la pena. La compassione è il sentimento contrario dell’egoismo, dell’indifferenza, della chiusura in noi stessi, dell’insensibilità.
La compassione è il linguaggio di Dio. Nei Vangeli, Gesù tante volte viene preso da compassione nei confronti di un’umanità debole e sfinita. La compassione però non è solo una virtù cristiana, ma è un valore universale. Lo abbiamo sperimentato in questi ultimi anni segnati dalla pandemia, sospinti dal bisogno di prossimità e di assunzione della cura dell’altro. Si tratta di tenere viva questa fiammella. Infatti, l’unica cosa necessaria per gli altri e per noi, nella nostra impotenza e fragilità creaturale, è la compassione. Una compassione dalla quale nessun essere vivente deve essere escluso.