Il teatro come cura alla disattenzione del mondo
Veste il saio francescano… ma anche quelli di tanti personaggi. Scrive, recita, organizza spettacoli. Fra Marco Finco, da oltre vent’anni, porta in giro per l’Italia la figura di san Francesco e di altri santi. È un frate, un attore, ma anche un direttore. Milanese, nato nel 1964, dal 2011 dirige il Centro francescano culturale “Rosetum”.
Padre Marco, è bello poter parlare con un frate cappuccino di arte e cultura. Che anno è stato secondo lei?
Questo tempo che stiamo vivendo, nella sua estrema e inedita difficoltà, ha reso palese la necessità dell’arte. Tutti abbiamo compreso che l’arte è un bene primario, non secondario. Senza arte e cultura siamo persi, svuotati di ciò che è considerato un di più, ma che, invece, se ci pensiamo bene, aiuta e accompagna il compimento della nostra umanità.
In questo anno di convivenza col Covid l’arte ci è mancata terribilmente. Se dico “teatro” a cosa pensa?
A un amore che si perde nell’infanzia, che è nato quando sono nato io. Da piccolo mi emozionava enormemente vedere che c’erano delle persone vive, in carne ed ossa, che erano lì, sul palco, apposta per me. Il teatro è un incontro reale, irripetibile, è un avvenimento che accade una volta sola. Anzi, è di più: è un appuntamento. Nessuna replica, per quanto ripetuta alla perfezione, sarà mai uguale a quella precedente o a quella successiva: cambia il pubblico, cambiano gli attori nel recitare. A differenza del cinema, il teatro per esistere ha bisogno di entrambi: pubblico e attori.
Essere attore era il suo sogno?
In realtà no, ho sempre amato il teatro dalla parte del pubblico, come spettatore, non come attore. In questo senso, essere passato dall’altra parte è avvenuto per caso, una sorpresa anche per me. Ci sono stati tanti tasselli. Con i ragazzi disabili per esempio ci eravamo inventati delle “catechesi espressive”, extraverbali. Poi mi sono trovato ad insegnare contemporaneamente a una quinta liceo e a una prima elementare. Nel giro di un’ora passavo da ragazzi grandi, prossimi all’esame di Stato, a bambini molto piccoli. Con loro il teatro è stato molto utile. Ma la svolta vera è stato un Meeting di Rimini di molti anni fa…
Ovvero?
Animavo le visite per i bambini, avevo imparato canzoni e testi scritti da un amico. Un sacerdote mi chiamò e mi disse che essendo un vero spettacolo su san Francesco voleva portarlo nella sua parrocchia. Così dal 2002 mi sono ritrovato sul palco come attore. 72 repliche! Ho girato tutta l’Italia con “Il cavaliere nel sacco. Divagazione su San Francesco… ma sempre in tema”, con testi di Giampiero Pizzol.
Quando la sua vita ha incrociato quella di san Francesco?
Sono entrato in convento a 25 anni. Avevo iniziato a frequentare l’Istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone. Fu un’esperienza incredibile per me. Ero con i disabili, alcuni anche molto gravi e con loro c’erano cinque frati. Quello che mi fece innamorare fu l’incontro con la fraternità. Non l’incontro con un singolo frate, ma con la fraternità che vivevano e che si esprimeva accanto a quei ragazzi. Erano cinque frati, cinque uomini uno diverso dall’altro, ognuno con pregi e difetti. Ma insieme erano altro. Si prendevano in giro, pregavano. Fu folgorante per me.
In questo periodo di distanziamento, tra restrizioni e chiusure, come ha gestito il centro culturale di cui è direttore?
Escluso il primo periodo dove abbiamo cercato di essere presenti con i social, ci siamo reinventati mille volte. Il Rosetum si occupa di tutto. Teatro, spettacoli, musica jazz, musica classica, cinema… pubblicazione di libri per bambini. L’estate scorsa, appena è stato possibile, abbiamo utilizzato il nostro cortile interno. In autunno invece ci siamo spostati sul marciapiede. Sì, sul marciapiede di via Pisanello, dove c’è la nostra libreria- negozio. Con microfono e leggio abbiamo iniziato a turno a leggere ad alta voce. Senza palcoscenico: la strada è diventata il nostro spazio d’incontro con i passanti.
Perché il teatro non può o non deve morire?
Perché è una cura alla disattenzione con cui rischiamo di vivere. Il teatro richiede attenzione, continuamente, intensamente. Non si può essere distratti. Ogni attimo è sacro. Non c’è un tasto per tornare indietro, non è una pagina che si può rileggere. E poi c’è tutta una ritualità, luci, silenzio, sipario: è una liturgia tesa a farti stare concentrato, attivo. Così nella vita. In ogni piccola cosa quotidiana esserci, stare dentro le cose. È la grande sfida di oggi.
Tratto da "Voce Serafica", n.5, 2021