Il medico di san Francesco
In questo lungo anno di pandemia, li abbiamo avuti costantemente negli occhi e nel cuore. Medici, infermieri, operatori sanitari. Quelli che Papa Francesco ha definito “silenziosi artigiani della cultura della prossimità e della tenerezza”. La storia che vogliamo raccontarvi questo mese è quella di Francesco Lo Presti, classe 1981, siciliano di Barcellona Pozzo di Gotto, che per alcuni anni ha creduto che il suo posto fosse proprio lì: tra le corsie di un ospedale, accanto a malati e colleghi in camice bianco. Umile e posato, sin da bambino sognava di fare qualcosa di bello per chi gli stava accanto. Alleviare un dolore, lenire una pena, “volevo essere tutto per gli altri” - ripete più volte, con dolcezza e semplicità.
Fra Francesco, quanta strada prima di arrivare dove è: da medico a frate. La medicina, possiamo dire, è stata la sua prima vocazione. Come è maturata questa scelta in lei?
Ho sempre sentito forte dentro di me il desiderio di prendermi cura degli altri. Amavo studiare, in particolare le materie scientifiche, e così ho messo insieme le due cose ed è venuto naturale pensare di farmi medico. A 19 anni ho lasciato la mia Sicilia e mi sono trasferito a Roma dove ho frequentato la facoltà di Medicina all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Non avevo intenti religiosi all’epoca, sognavo solo una struttura valida, qualificata e il Policlinico Gemelli, l’ospedale dove mi sono formato, lo è stato. Nel 2006 mi sono laureato, ma, per un caso inedito, il concorso di specializzazione non si fece e io rimasi fermo, dal punto di vista degli studi, per circa un anno.
Una volta diventato medico cosa avvenne?
In attesa della specializzazione continuavo a lavorare in ospedale. Poi finalmente iniziai il primo anno al Campus Biomedico di Roma. Volevo specializzarmi in Chirurgia Generale. Ero fidanzato con una ragazza conosciuta in una parrocchia vicino al Gemelli. Per una serie di motivi, era venuta meno una comunità in cui sentirci inseriti, così la mia ragazza prese contatti con i frati del Palatino di Roma. Se ci ripenso, è grazie a lei che sono andato lì la prima volta. Era un corso su Giacobbe e sulla vita di san Francesco. Mi colpì tantissimo la sensazione che provai quel giorno nell’ascoltare i frati: c’era una trasparenza, un’aderenza tra ciò che dicevano e ciò che vivevano. Ne rimasi catturato e iniziai a frequentarli assiduamente.
Il desiderio di farsi frate quando arrivò?
Quando ho incontrato a tu per tu Gesù. Era il 2008, avevo appena ascoltato una catechesi dei frati sull’Amore crocifisso. Mi sono ritirato in preghiera e ho sentito un dialogo personale col Signore. Era come se avessi sentito Gesù crocifisso dirmi: “Io ti amo”. Questo mi ha cambiato la vita. Come potevo rispondere a quell’amore immenso che si manifestava? A quell’amore smisurato che si donava a me? È stata un’extrasistole del cuore! Fino a quel momento era come se avessi vissuto dentro uno schema che mi ero creato io, donandomi a partire da me stesso: ma quell’incontro ha rovesciato la mia vita. Senza il Suo amore non possiamo far nulla. Tornai in ospedale cambiato. Ricordo una paziente, mi dava pace entrare nella sua camera, mi sentivo amato. E poi quell’intuizione, di farmi anche io frate minore…
San Francesco ha lasciato il segno. Cosa le ha trasmesso?
Ci sono tante cose che potrei dire… Penso in particolare alla sofferenza. Può avere senso solo nella comunione intima con Cristo Crocifisso. Vivere come lui, con lui e in lui ogni esperienza dolorosa (una malattia, un rifiuto, un fallimento) ci apre alla certezza di non essere soli, alla speranza di una vita nuova, a quella pace interiore che Francesco chiamava “vera letizia”.
Da tre anni è nel convento di San Bernardino a L’Aquila dove si occupa di giovani e pastorale giovanile. Cosa è rimasto del Francesco medico oggi che è frate?
Tanto. Essere medico mi ha insegnato certamente a stare accanto all’altro, paziente o collega che sia. Mi ha insegnato a fare squadra. In ospedale c’è un’equipe medica che lavora in sinergia per un malato: tanti medici cooperano per il bene di una persona sola. Oggi sperimento lo stesso nella fraternità con i miei fratelli e nel carcere in cui presto servizio: è un po’ vivere “tutti per uno”. E poi adesso posso portare la medicina vera agli altri: porto Qualcuno, non qualcosa, porto l’Eucarestia, non dei farmaci. Ed è la bellezza di essere diventato sacerdote oltre che frate.
Tratto da "Voce Serafica", n.4, 2021