Intervista a fra Carlo Maria Chistolini
In che contesto operate come frati cappccini in Amazzonia?
Manaus è la capitale dello Stato dell’Amazzonia, una città di circa 3 milioni di abitanti. Operiamo in un quartiere di 100 mila abitanti, di cui molti vivono nelle favelas. Poi siamo presenti in villaggi lungo il fiume, fino a 2000 km dalla capitale Manaus, con gli indios Tikuna. La loro vita è il loro villaggio, è lì che imparano a cacciare e a coltivare: per questo è particolarmente sentita la questione del disboscamento e dell’invasione delle multinazionali. Fortunatamente, almeno nei contesti che conosco, i territori demarcati come protetti hanno “tenuto”: basti dire che anche noi abbiamo bisogno del permesso della FUNAI (Fondazione Nazionale dell’Indio, ndr) per entrare. Però non si può negare che ci siano frodi e illegalità, denunciate anche dai missionari – e da qualche buon politico, perché ci sono anche quelli. È una situazione delicata, perché quando si denuncia chi cerca il proprio guadagno a spese di altri si è scomodi.
Come agite? Qual è il vostro impegno?
La prima parola è il rispetto di questi popoli, che vivono di ciò che hanno e sono un tutt’uno con la natura, e della loro identità. In questo senso anche la Chiesa deve fare un mea culpa per aver a volte voluto solo dare invece di accogliere. San Francesco stesso diceva: “Andate e predicate il Vangelo in tutto il mondo e, se proprio ce ne sarà bisogno, usate le parole” … deve bastare il semplice fatto di viverlo. Il nostro impegno è volto soprattutto a rivalorizzare l’identità di questi popoli, che hanno un bagaglio culturale che è stato loro fatto dimenticare: da anni proponiamo, ad esempio, il Festival di musica indigena e le Olimpiadi indigene. Poi, naturalmente, annunciamo anche il Vangelo, sempre con la convinzione che Gesù è venuto ad elevare la dignità di ogni uomo, cristiano e non. Io stesso posso dire di aver imparato molto da questo popolo della foresta, che pure è così taciturno e riservato.