Storie dai conventi

La bellezza di scoprirsi poveri

lunedì 03 febbraio 2025 di Silvia Roccetti
Incontro con fr. Roberto Pasolini nominato da papa Francesco predicatore della Casa Pontificia, succedendo al card. Raniero Cantalamessa.

Biblista, accademico, studioso di lingua greca ed ebraica. Fra Roberto Pasolini, lombardo, nato e cresciuto a Milano, ha un passato plasmato dal rigore delle formule e dei modelli matematici. “Da bambino mi addormentavo sognando di esplorare i limiti dell’universo con una navicella spaziale… quel desiderio me lo sono portato dentro anche quando ho scelto di studiare la matematica e l’intelligenza artificiale. Oggi penso che la libertà di ciascuno di noi consista nell’onorare il nostro limite, quello che c’è stato dato da Dio”.

Fra Roberto, prima di vestire il saio francescano chi era?

Ero un ragazzo a cui stavano stretti gli ambienti piccoli, suonavo, ero fidanzato. Scoppiavo di vita. All’università studiavo matematica. Mi affascinava il mondo dei computer e dell’intelligenza artificiale, lì dove scienza e sapere umanistico si incrociavano. Mi occupavo in particolare dell’apprendimento delle lingue naturali attraverso modelli matematici.

Gesù come è entrato nella sua vita?

Avevo 22 anni e, forse saturo di studio e di teoria, era cresciuta in me una sete di senso, che mi incalzava. Mi chiedevo: perché le cose cambiano, le relazioni muoiono, finiscono? Verso cosa sto andando? Ricordo che ero a Milano, in metropolitana. Avevo comprato un giornale comunista, che ora non esiste più, e in allegato c’era, curiosamente, il Vangelo di Matteo. Iniziai a leggerlo in mezzo alla gente e fu come ascoltarlo per la prima volta. Conservo ancora quella copia bagnata di lacrime. Quelle pagine erano rivolte ai poveri e io mi scoprii tale, consapevolmente: Gesù mi è venuto a trovare nella mia povertà.

Da quel momento in poi cosa è cambiato in lei?

Ho capito che il mondo non lo si cambia facendo la rivoluzione, facendolo da capo come voglio io, ma soltanto riparandolo, come ha fatto san Francesco. Ricordo che da ragazzo una frase de Il giovane Holden di Salinger mi folgorò in questo senso… ovvero che la differenza fra il giovane e l’adulto è che il giovane è pronto a morire per un ideale mentre l’uomo adulto è disposto a vivere umilmente per esso.

Come ha scelto di farsi cappuccino?

Il mio angelo custode mi ha dato una mano riportandomi prima di tutto nella mia parrocchia di origine. Lì ho incontrato un prete che fumava come me, che sapeva di tabacco. Mi sono confessato, ho pianto lacrime di gioia e liberazione. Ho tirato fuori tutta la verità che c’era nel mio cuore scoprendo improvvisamente la paternità di Dio. Di lì poi l’esperienza dell’eucarestia quotidiana e della preghiera. In un primo tempo pensavo, infatti, di farmi monaco, ma poi, un giorno, mentre ero in biblioteca per la tesi, ho iniziato a leggere un libro di san Francesco e santa Chiara. Con gli occhi lucidi, mi sono ritrovato dentro la voce di queste due persone. È stato un incontro sismico oltre il tempo: Chiara e Francesco suonavano lo spartito della mia vita. Così ho deciso di andare a cercare i frati, prima i minori, poi i cappuccini di Porta Venezia, dando inizio al mio cammino.

Sono passati diversi anni dalla lettura di quei testi. Oggi chi sono, per fra Roberto, Francesco e Chiara?

Campioni di una umanità bella, possibile. San Francesco penso abbia dato una misura, un parametro di umanizzazione a ciascuno di noi. È come se avesse sbirciato un po’ il paradiso e avesse indicato una via per viverlo già qui. Lui viene ricordato solo come uno che ha fatto del bene; invece, quello che mi affascina di più è che si è fatto povero perché gli altri potessero fare e fargli del bene, perché gli altri potessero tirar fuori il meglio della loro umanità. Ha rovesciato la prospettiva: non farsi dire “quanto si è bravi e buoni”, ma permettere agli altri di esserlo.

 

Tratto da "Voce Serafica", n.3, 2021

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