Spiritualità

Giubileo dei cappuccini dell’Italia Centrale

mercoledì 16 aprile 2025 di fra Andrea Gatto OfmCap
L’incontro con don Fabio Rosini e il passaggio della porta santa

In una Roma fiera dei suoi svolazzi primaverili, il 10 aprile scorso, i fratelli cappuccini dell’Italia Centrale hanno celebrato il giubileo della Provincia. Abbiamo attraversato insieme, in un gesto antico e importante, la porta santa della Basilica di S. Lorenzo al Verano, dove vive e opera una delle nostre fraternità presenti nella capitale.

Chi mi seguirà nel cammino della Pasqua?, abbiamo cantato a ogni piè sospinto in questo tempo forte di Quaresima: con questa domanda e con le nostre personali capienze di risposta, abbiamo seguito il Crocifisso che fra Simone, ministro provinciale, portava tra le mani introducendo la carovana dei frati dentro la grande basilica costantiniana che ancora oggi custodisce le spoglie mortali del martire Lorenzo e del beato papa Pio IX.

A guidare la nostra riflessione sull’esperienza del giubileo (e non solo!), don Fabio Rosini, già direttore dell’Ufficio per le vocazioni, docente di comunicazione e trasmissione della fede alla Pontificia Università della Santa Croce e, dal settembre 2024, direttore dell’Ufficio per la pastorale universitaria. Ma troppe presentazioni stonano. Quello che non ha stonato è stato il suo intervento, puntuale, provocatorio e appassionato, come è nel suo stile, che ha indirizzato a orecchie e cuori dei fratelli venuti a Roma dai loro conventi sparsi tra Abruzzo, Lazio e Umbria.

Dopo aver accennato alla matrice storica del Giubileo – che non fu iniziativa di papa Bonifacio VIII ma una risposta alla richiesta pressante del popolo di Dio, per il quale la disciplina delle penitenze era divenuta insostenibile – don Fabio ha richiamato alla memoria la grande riforma spirituale dei francescani, un ritorno alla serietà e alla radicalità del Vangelo, necessità che non di rado ha risvegliato le più alte aspirazioni dei cristiani lungo i secoli. Il Giubileo non deve essere, come purtroppo rischia anche quest’anno, l’occasione per speculare sull’accoglienza dei pellegrini (anche da parte delle strutture religiose), perché non è una macchina di pellegrinaggi. Il Giubileo è indetto dalla Chiesa per riallacciare la nostra vita a un senso profondo di appartenenza.

Nell’Antico Testamento, dove dobbiamo ritrovare le radici di questo “evento”, ogni cinquant’anni tutti dovevano tornare “padroni” della propria terra. La terra era il dono benevolente e paterno di Dio, e che era stata promessa fin dall’uscita dall’Egitto: quella porzione di terra sarebbe divenuta il luogo della loro crescita come popolo ed era il segno che il popolo era stato liberato dall’antica schiavitù, il frutto della redenzione donato a Israele, non perché se ne impossessasse ma perché lo abitasse nella memoria della sua libertà. E questo anche se il popolo che Dio si è scelto non sempre è stato capace di accoglierne la premura e la cura.

Questo è dunque il senso del Giubileo: rientrare nella propria terra, cioè nella nostra identità di cristiani, ritrovare la vitalità della nostra vita sacramentale, in una parola tornare a casa, dove io sono io, e dove celebro tutto il bene che Dio mi ha regalato. Per questo attraversiamo una porta. La porta – spiega don Fabio – è il passaggio tra due spazi, la fine della continuità di un muro. C’è un’immagine del Vangelo di Giovanni (10, 9) che ancora non abbiamo capito bene: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo». Entrare vuol dire anche uscire. Pensiamo al cieco del capitolo precedente: egli esce dalla sinagoga per entrare in una realtà nuova. Non puoi entrare in una stanza senza uscire da un’altra. È un’immagine esistenziale valida sempre. Non puoi fare l’uno senza l’altro: o solo entrare o solo uscire. Sempre varchiamo una soglia. E questo era anche il senso delle prime prassi penitenziali, legate al cammino primitivo della Chiesa cristiana. Il Giovedì Santo era il momento in cui il penitente, dopo aver attraversato il deserto della Quaresima sottoponendosi a una dura disciplina, veniva riaccolto nella comunità dei battezzati, cioè tornava alla vita del battesimo: il vescovo andava alla porta come il padre misericordioso, apriva la porta e lo accoglieva insieme con l’assemblea dei cristiani.

Siamo in un momento storico in cui la nostra vita cristiana affronta un serio combattimento spirituale e il rischio più grande è la mediocrità della propria vita interiore. Uno vive di compromessi biechi. Il mainstream della comunicazione in cui siamo sommersi ci espone all’abitudine di lasciar fare, la nostra preghiera scricchiola e si finisce con l’assomigliare all’ospite della festa di nozze nel Vangelo di Matteo (22, 1-14), che si presenta senza l’abito adatto, quello donato dallo Sposo. Questo abito nuziale è la nostra vita battesimale e chi si abitua a stare alla festa senza questo abito, ammutolisce, non ha più nulla da dire. Diventiamo scialbi, inconsistenti, senza spessore. E tutto questo crollerà, perché la gente non resta lì ad ascoltare chi non crede nelle parole che osa pronunciare. Già il professor Ratzinger, nel lontano 1969, aveva profetizzato che la Chiesa perderà le sue strutture perché non avrà più fedeli. Proviamo a vedere chi guarda oggi un giovanissimo per plasmare e ripensare la sua vita.

Don Fabio a questo punto fa un affondo sul tempo della pandemia. Ci siamo divisi in no-vax e pro-vax («ma ‘ndo vax?!», commenta con un guizzo di comicità), ma ci siamo dimenticati di essere in comunione tra noi. Eravamo disposti a rompere i ponti con gli altri o persino a disobbedire, pur di mantenere la nostra idea. Quando le idee divengono più importanti della comunione, non abbiamo più niente a che fare con Gesù Cristo. Lui che non ritenne la sua uguaglianza con Dio un tesoro geloso, ma da Dio che era ha fatto quel che ha fatto, servire gli uomini e costituirli fratelli.

Anche per noi cappuccini, dunque, è il tempo di rientrare nella terra del nostro carisma, la radicalità del Vangelo vissuto nella letizia, la gioia che è il Vangelo stesso, la bellezza della vita quando uno la vive e la dà fino in fondo. «Chi è quel cappuccino che risveglierà l’amore alla vita francescana e darà inizio a una rinascita di vocazioni per la vita della vostra Provincia? Siete voi! Se non credete questo, che sarete quelli che faranno la cosa bella che deve essere fatta adesso, voi non credete alla grazia di Dio». Per don Fabio serve creatività, che non significa inventarsi necessariamente qualcosa di nuovo, ma attingere al patrimonio della nostra tradizione con uno sguardo nuovo, ridare valore al nostro tesoro. E racconta, a mo’ di esempio, di quella volta in cui, appena nominato parroco di una comunità a Roma, l’Ordine Francescano Secolare rischiava per vari motivi di lasciare e trasferirsi in una parrocchia vicina. Ma ecco l’idea: rileggiamo insieme la Vita Prima di Tommaso da Celano! Ebbene, rileggere la vita di Francesco, insieme, ha ridato vita a quella fraternità.

La chiave è radicarsi nella bellezza della nostra vocazione. Sarebbe un peccato che la Chiesa cadesse vittima del gioco del mondo, perdendo tempo a elemosinare un po’ di potere o riducendosi a puro folklore. Persino Pasolini nel ‘74, in un articolo apparso sul Corriere della Sera, scriveva: «Questo è certo: che se molte e gravi sono state le colpe della Chiesa (...), la più grave di tutte sarebbe quella di accettare passivamente la propria liquidazione da parte di un potere che se la ride del Vangelo».

Molto altro ha raccontato don Fabio e a più grandi cose ci ha esortato, prima che tutti ci radunassimo ancora insieme per la celebrazione dell’eucarestia, che ha come sigillato la pagina di questa giornata giubilare della Provincia, per tutti una vivace infusione di speranza certa.

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