Il punto

Il limite di ogni cosa perfetta

venerdì 07 febbraio 2025 di fr. Andrea Gatto OFMCap
Alla scuola dei cappellani dell’ospedale di Perugia

L’11 febbraio, memoria liturgica della Beata Vergine Maria di Lourdes si celebra, ogni anno ormai dal 1992, la Giornata Mondiale del Malato, a cui seguirà il prossimo 6 aprile il Giubileo degli Ammalati e del Mondo della Sanità.

Solo in punta di piedi è lecito accostarsi al cuore di una donna o di un uomo ammalato, solo in punta di piedi e sentendo nel proprio cuore che quella fragilità misteriosa del corpo di un altro è un’esperienza condivisa, e allo stesso tempo una vicenda personale e incomunicabile.

La scorsa estate mi è stato proposto di affiancare i cappellani dell’ospedale di Perugia, condividendo circa un mese di vita e servizio con questi fratelli dell’ordine dei frati minori, che da molti anni abitano in questo luogo, in un piccolo appartamento all’ultimo piano, dove terra e cielo si sfiorano, e dove un telefono risponde accaventiquattro.

Venivo da Recanati, dove Leopardi scrisse quanto cara gli fosse quella siepe, il limite da cui scorgere l’ultimo orizzonte. Sono arrivato a Perugia con quella domanda dentro: come può un uomo giungere ad aver caro il proprio limite? Per tutto il tempo che ho percorso in lungo e in largo i corridoi dell’ospedale – che per le sue “prestazioni” e con una parola convenientemente sterilizzata chiamiamo anche azienda ospedaliera – quella domanda restava insistente e inevasa. Fra Gabriele mi aveva lasciato il testimone qualche giorno prima: «Andrea, è difficile stare qui, ma c’è una fraternità con te, ci sei tu che ogni giorno ci proverai, e c’è l’eucaristia». È difficile stare con l’ingombro di un male fisico, talvolta inguaribile. È scandaloso che una creatura di Dio, così eternamente voluta e amata dal suo Creatore, si rovini, oppure debba incontrare la morte.

Per questo raccontare a qualcuno è necessario, perché le parole interrompono la spirale del non senso. Dirsi quello che vediamo e sentiamo è necessario per il paziente come per il medico, per l’infermiere come per il frate, e per gli amici e i familiari che venivano a visitare i loro affetti. Anche io raccontavo, quando il cuore non era troppo pesante; lo facevamo con i frati cappellani quando ci ritrovavamo insieme o ci si incrociava nei lunghi corridoi che univano i reparti, e lo faccio ancora qui, a distanza di un po’ di tempo.

Siamo tutti affetti. Affetto è una parola ambivalente. È vero, siamo affetti da malattie che insultano il nostro benessere psicofisico e spirituale. Ma più di ogni altra cosa siamo affetti per gli altri, cioè siamo amati, amati anche oltre la salute, che a volte non c’è, amati per la salvezza. Imparavo, in quei giorni “in corsia” (e in corsa verso una vita guarita o verso la morte) che il senso autentico della missione di un cappellano non è solamente dire voglio che tu sia in salute, ma anche e sempre dire voglio che tu sia salvo. L’amore, quell’amore che è fino alla fine, sa che la guarigione di una ferita è un dono inestimabile, ma non può accontentarsi: chiede tutta la salvezza. Il ministero dei frati cappellani di Perugia è stata per noi una scuola di verità sull’amore: l’amore non toglie il dolore, ma lo accompagna con cura a un nuovo inizio.

Ogni mattina aprivo il tabernacolo per chiedere al Signore, nascosto nel pane eucaristico, di accompagnarmi nella visita ai reparti, alcuni più faticosi di altri; molte mattine la tentazione era di rimpicciolirmi ed entrare nel tabernacolo anche io, chiudere la porta da dentro, e restare seduto tra le piccole teche istoriate. Ma lì non era perfetta letizia. Il tabernacolo custodisce una presenza che sprigiona la vita e ha una porta che non si chiude dall’interno, perché chi abita lì non si concede mai il privilegio di starsene da solo con se stesso.

Man mano che i giorni trascorrevano i miei occhi si riempivano di stupore nel vedere i frati aggirarsi nel loro appartamentino come api, attingere la vita del tabernacolo e scendere nei reparti, poi tornare con gli occhi stanchi e le teche vuote. Ho iniziato così a imitare il loro volo. Anche quando si dovevano guardare gli occhi di una madre impotente, distesa accanto a M., il suo bambino malato di cancro. O quando si dovevano sfiorare le mani di R. che annodavano lana su lana, per farne coperte ai bambini di un paese africano, sognando di sposarsi con U. prima di morire a 47 anni. O davanti alla smorfia di D. che con le ossa rotte voleva gridare la voglia di pilotare ancora un elicottero, mentre suo padre sorrideva con tenera fierezza. O ancora quando si doveva ascoltare l’affanno di F., un ragazzo in terapia intensiva che, nonostante la sua fame d’aria, chiedeva di ricevere la comunione. E impari, in ogni incontro, che come stai non è mai la domanda giusta sulla soglia di queste stanze. Dove stai, lì se vuoi ti raggiungo. Senza giudicare mai la fede o la sfiducia, ma stringere i denti con tutti, con chi li stringe per mordere aria con rassegnazione e rabbia, e con chi li stringe sul corpo di Cristo per mordere vita eterna.

Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua

Mt 16,24

La Giornata del Malato è stata istituita da S. Giovanni Paolo II, il papa che aveva già donato alla Chiesa la lettera Salvifici Doloris nel 1984, anno del Giubileo Straordinario della Redenzione. Speranza e Redenzione sono due coordinate inderogabili della fede cristiana, e sono sigillate dal mistero della croce: «Alla prospettiva del Regno di Dio è unita la speranza di quella gloria, il cui inizio si trova nella Croce di Cristo» (SD 22).

Nei suoi scritti, Francesco di Assisi dice che solo una cosa possiamo prendere, e usa questo verbo solo perché lo usa Gesù nei vangeli: Se qualcuno vuol venire dietro a me, prenda la sua croce. L’unico possesso che possiamo rivendicare nell’avventura della vita, e quanto più della vita cristiana, è la croce. Prendere la nostra croce e comprendere la croce di altri, significa accogliere l’esperienza del limite, limite che – come canta l’autore del salmo 119 – è di ogni cosa perfetta. Queste parole non sono la voce anonima di un’umanità rassegnata a guastarsi senza speranza, ma sono il canto dei frati, dei pazienti, dei medici e degli operatori sanitari che ho incontrato in questa periferia di Perugia, persone che hanno a cuore il destino dell’uomo, segnato non solo dalla coscienza del dolore ma anche dalla capacità di condividerlo.

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