Spiritualità

Cercare Dio e cercare l’uomo: il senso della bisaccia cappuccina

giovedì 28 novembre 2024
La missione propria del frate è di cercare l’umanità sulle sue strade. Non è sempre stata questa, fin dall’inizio e dalle ispirazioni di fra Mariangelo, la missione di Frate Indovino?

Figliuoli! Voglio che abbiate un ricordo del povero frate.» E qui levò dalla sporta una scatola d’un legno ordinario, ma tornita e lustrata con una certa finitezza cappuccinesca; e proseguì: «qui dentro c’è il resto di quel pane… il primo che ho chiesto per carità; quel pane, di cui avete sentito parlare! Lo lascio a voi altri: serbatelo; fatelo vedere ai vostri figliuoli. Verranno in un tristo mondo, e in tristi tempi, in mezzo a’ superbi e a’ provocatori: dite loro che perdonino sempre, sempre! Tutto, tutto! E che preghino, anche loro, per il povero frate!

fra Cristoforo

Con tali parole, fra Cristoforo – il frate cappuccino emerso luminosamente dalla penna del Manzoni – lascia a Renzo il simbolo della sua missione “religiosa”: il primo pane raccolto per i poveri, conservato a eterna memoria del mistero di provvidenza che unisce gli uomini di ogni tempo in relazioni reciproche di assistenza e soccorso.

Guardando anche all’esperienza dell’ordine dei frati minori cappuccini, la figura del frate cercatore, o questuante, è ancora un ricordo vivo nell’immaginario del nostro popolo. Il quaerere Deum (cercare Dio) del monachesimo benedettino, quell’insopprimibile esigenza dell’uomo di guardare il cielo, da quando Francesco ha inventato questa forma di vita, per i francescani, non si separa mai dal quaerere hominem, e cioè dalla missione propria del frate di cercare l’umanità sulle sue strade. D’altro canto, non è sempre stata questa, fin dall’inizio e dalle ispirazioni di fra Mariangelo, la missione di Frate Indovino?


 

La questua, che ha la stessa radice di quaerere, è stata, e in alcune forme adattate è ancora, la ricerca dei cosiddetti beni di prima necessità per il povero, il malato, e in parte anche per la fraternità che, come ogni famiglia, ha bisogno di sostenersi. Ma come il Manzoni rivela, il fine ultimo (e primo) della cerca minoritica, è in quel simbolo del pane condiviso con l’altro, con il popolo, con la fraternità universale. Il frate sempre cerca Dio, e in questa ricerca sempre trova il fratello umano.

È ovvio che la questua dei primi frati minori e dei cappuccini delle prime ore non è la stessa del frate nel 2024. Il volto della chiesa pellegrina è mutato, come è mutata la sua presenza nel corpo sociale.

Per secoli l’identità del frate minore è stata legata a quella, per dirla con un’espressione popolare, del fraticello. Questi non era altri che l’umile frate, scalzo pure d’inverno, che girava di porta in porta, di strada in strada, per la sua quotidiana cerca. Ancora nel Novecento, si era sedimentata nella memoria di molti l’immagine del frate questuante, una figura antica e buona, di quella stranezza bene accolta da tutti nel pittoresco paesaggio umano.

Questa buona fama è un’eredità che dobbiamo tutti a Francesco, che è stato in grado, con la sua scelta radicalmente laica di testimoniare il Vangelo, di affascinare gli uomini di ogni tempo, riconciliando il binomio problematico istituzione-popolo. Nella mia esperienza e non senza un certo imbarazzo e dolore, ho spesso incontrato sguardi favorevoli al saio del frate e occhiate, invece, più sospettose o addirittura ostili alle talari o ai colletti dei preti diocesani, e di sentire commenti come i frati mi hanno sempre fatto più simpatia dei preti (come se non fossimo tutti al servizio della stessa Chiesa!). Ma sarebbe un errore credere che Francesco d’Assisi fosse un’alternativa al cosiddetto clero. Anzi, egli rimase fin da principio coerente con la scelta di obbedire alla Chiesa, e questa obbedienza in tutto e per tutto è parte del carisma dei suoi frati.

In Italia la subcultura degli indifferenti, già in espansione negli anni ’70, oggi si traduce ormai in un ateismo pratico. Parliamo di quella porzione di popolo di Dio – ebbene sì, sono cristiani “patentati”, con tanto di battesimo – che manifesta un atteggiamento indifferente all’appartenenza religiosa o, più genericamente, al credere. Cosa resta del sacro, allora? – potremmo chiederci. In metropolitana, se sei un frate, può ancora capitarti di essere trattenuto da qualcuno che vuole toccare o baciare il cingolo; oppure di essere incrociato da uno sconosciuto che si fa un segno di croce scaramantico, o ti chiede una benedizione, in genere classificabile tra quelle perché-non-si-sa-mai.

Ma oggi l’uomo non riconosce con la stessa immediatezza o sensibilità dei suoi antenati il senso interiore della religione; non vede neanche più nella caotica apparenza della realtà attorno a sé una presenza religiosa significativa: i valori religiosi delle nostre nonne non vengono più sentiti come orientamenti fondamentali della vita. Io stesso, prima di approdare a questa forma di vita cappuccina, tornavo in chiesa dopo anni in cui ho creduto a mille cose, e a stento ricomponevo dentro di me il significato dei riti nella liturgia della messa! Erano divenute credenze, illusioni. Insomma, come la gente del nostro mondo post-umano, anch’io avevo smarrito i simboli, e anche la capacità di interpretarli.

L’orizzonte francescano ha segnato una cultura e una società non con la pretesa di inculcare il proprio tesoro di credenze, ma di condividere la cura che Dio ha per i suoi figli, con cuore semplice, senza rivendicare alcun potere sulle coscienze.C’è una fatica nel “mestiere di vivere”? La spartiamo. C’è una povertà da curare? Spargiamo con mani tremanti e incapaci l’olio della cura, che nella lunga storia della riforma cappuccina, abbiamo imparato a versare sulle ferite di tanti fratelli, perché è stato versato nelle nostre.

La compagnia di tanti fratelli cercatori, che con la loro bisaccia hanno sfamato pance e anime pelle e ossa, è un miracolo durato secoli. E la loro storia continua.