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Amal: la speranza che resiste

29 maggio 2024
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Wasila era sulla soglia della sua casa di Perugia ad aspettarci. Siamo stati accolti come familiari. Il sumaq, che è servito a insaporire il musakhan che abbiamo mangiato insieme, era stato fatto venire dalla Giordania.
Wasila vive in Italia ormai da diversi anni, con suo marito Yousef e i loro due ragazzi, Adham e Firas. Tutti nati e cresciuti a Betlemme, a poche centinaia di metri dalla Basilica della Natività. Lei è un’ostetrica, Yousef intagliatore di pietre. I due figli hanno studiato qui con una borsa di studio della Fondazione Giovanni Paolo II.

Con Wasila ci vediamo ogni mercoledì alla Caritas di Perugia, dove siamo entrambi volontari della mensa. I cristiani di Palestina sono il 2-3% della popolazione, ma molti emigrano verso l’Occidente in cerca di una vita più sicura. Anche la casa di Yousef e Wasila a Betlemme è chiusa adesso, ce lo dicono con il rammarico di non essere lì, in questo tempo di guerra, insieme con la loro gente. Intorno alla tavola abbiamo parlato italiano, arabo e inglese e ci siamo scambiati qualche parola sull’esperienza di questa famiglia che ha trapiantato il suo focolare nel nostro paese, vivendo in pace con tutti. Wasila risponde sempre con grande discrezione e tenerezza, Yousef annuisce ascoltando le traduzioni istantanee dei loro figli, di tanto in tanto interviene, infiammandosi per le magagne della politica e ricordando ferite che ci confida solo per mezze parole. Abbiamo pregato il Padre Nostro in arabo, prima di metterci seduti. Le risposte non sempre sono direttamente date da Wasila, ma per comodità mi rivolgerò principalmente a lei nelle mie domande.

Wasila, grazie di averci ospitato nella tua casa. Com’è vivere lontano dalla Palestina? Com’era la tua vita prima di venire qui?
È difficile stare lontani dalla nostra casa, avevamo una casa grande, tre piani, non abita più nessuno lì. I miei parenti vivono a Betlemme, Yousef invece viene da un paese vicino. Io mi sono laureata a Betlemme come infermiera e ostetrica e ho lavorato negli ospedali per conto delle Nazioni Unite e alla Caritas, spostandomi ogni giorno per tutto il territorio della Cisgiordania, fino a Hebron. Avevamo case in cui accoglievamo e curavamo i bambini dei palestinesi e degli israeliani.  
Un’ostetrica e una mamma, per missione hai quella di fare venire alla luce.

La seconda domenica di Maggio noi celebriamo la festa della mamma, è lo stesso giorno anche per voi? E tu che rapporto hai con la Vergine Maria?
Noi celebriamo la festa della mamma il 21 marzo, all’inizio della primavera. I cristiani di Palestina sono profondamente legati alla Madonna, la sentono parte del popolo, e in particolare a Betlemme. Una volta ho fatto un sogno, in cui lei mi parlava, sentivo che mi conosceva fino in fondo, sapeva ed era vicina alle vicissitudini della mia famiglia.

È una figura presente anche nella religiosità dei nostri fratelli musulmani.
Sì, anche alcune donne musulmane indossano la sua immagine. Io sento che Maria ha un ruolo importante in questo conflitto, forse alla fine sarà lei a intervenire, perché lei non può abbandonare il suo popolo.

Cristiani e musulmani vivono insieme da generazioni. Come sono le vostre relazioni?
Molto buone. La nostra generazione è cresciuta insieme ai musulmani pacificamente. Andavamo a scuola e giocavamo insieme, e ciascuno andava a celebrare il proprio culto. Anche per i miei figli è stato così, ma c’è più sospetto adesso. La religione in questo conflitto c’entra e non c’entra, e di sicuro per noi non è un fattore discriminante. Ricordo da piccoli che nel giorno di Natale, anche i nostri amici musulmani venivano nella nostra casa. Era normale.

Da tanto tempo il cardinale Pizzaballa vive nella Custodia di Terra Santa e ha in più occasioni richiamato l’urgenza di imboccare sentieri di conciliazione.
Da prima che nascessero i miei figli lui vive in Terra Santa. Ha ragione a dire quello che dice: c’erano rapporti che sembravano essere consolidati, ma oggi serpeggia un sentimento di sfiducia nella gente. Sono stati commessi errori da entrambe le parti e la situazione di oggi non è che la punta dell’iceberg, le origini della guerra sono molto lontane. Oggi i leader al potere non hanno interesse a fare la pace, perché fare la guerra è più semplice. È sempre una questione di potere ai vertici, la gente non vuole la guerra. I nostri popoli, da una parte e dall’altra, sono estenuati da anni di politiche corrotte.

Quale è il sogno?
Il sogno per noi è sempre stato quello di arrivare ad essere due popoli in due stati. E anche l’Onu riconosce la legittimità di questo sogno. Attualmente però, su questo, non c’è una volontà di accordarsi. Il nostro popolo soffre da troppi anni, non siamo riconosciuti. In un territorio che appartiene da sempre ai palestinesi, i palestinesi vivono confinati nei campi profughi. Bisogna vivere lì per rendersene conto e non sempre in Occidente si ha una chiara percezione di quel che accade.

Chiedo a Adham e a Firas cosa può fare la Chiesa in questo fuoco incrociato.
La Chiesa ha sempre cercato la verità nelle alterne vicende di questo conflitto. Ci sono state figure anche molto coraggiose che in passato hanno provato a sostenere la causa del popolo palestinese, come quella di Hilarion Capucci (arcivescovo greco-cattolico, arrestato nel ’74 con l’accusa di aver sostenuto la resistenza). Ma soprattutto la Chiesa ha sempre accolto chi cercava rifugio. La più antica chiesa di Gaza si è trasformata in un accampamento in cui riparano i palestinesi che scappano dai bombardamenti. Per un po’ di tempo abbiamo temuto che anche quel luogo potesse da un momento all’altro essere raso al suolo. Pizzaballa ha invocato molte volte uno sforzo di unità, ma questo appello rimane inascoltato.

Wasila, c’è una parola che ti resta nel cuore?
Una parola c’è, anche se la diciamo con difficoltà. È la speranza: amal. Ci vuole pazienza, ci vuole fede e ci vuole speranza. Più forte è la speranza. La speranza che resta nel cuore, che viene dalla nostra fede. Ma tutti nel mondo, e non solo in Palestina, tutti devono aiutare la pace.

«Aiutare la pace». Ritornano in questa espressione anche le pagine del diario di Etty Hillesum, quelle in cui questa giovane donna ebrea dichiarava che sarebbe stata lei ad aiutare Dio. «Ho una fiducia così grande: non nel senso che tutto andrà sempre bene nella mia vita esteriore, ma nel senso che anche quando le cose mi andranno male, io continuerò ad accettare questa vita come una cosa buona». È questa bontà di fondo che questa famiglia cristiana di Betlemme crede e porta con sé dalla terra in cui Gesù è nato.

Ci salutiamo con la promessa di restituire la loro accoglienza venendo a visitarci nel nostro convento di Assisi e magari imparare anche noi a cucinare il musakhan, con la sua spezia rosseggiante che leggera ha passato tanti confini per finire qui, sulla tavola di questa amicizia.

Fr. Andrea Gatto ofmcap

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