«Le stelle si erano fatte vicine e chiamavano tutti a mettersi in cammino. Sembrava quasi di sentire le schiere celesti cantare: Gloria a Dio nell’alto dei Cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà».
Questa è l’esperienza del medico radiologo giapponese Paolo Takashi Nagai, come si legge nella sua autobiografia (Ciò che non muore mai, Edizioni San Paolo, 2023). Questa è un’eco che ascoltiamo non solo da lui. Sulla lampada che sormonta il sepolcro risorto di Carlo Acutis nel Santuario della Spogliazione ad Assisi sono incise quelle poche parole, che ormai sono una giaculatoria che corre sulla bocca di tante persone: Non io ma Dio. Morire a se stessi, per consentire a Dio di nascere. Questo è il vero invito ai cristiani, questo è il tema del Natale, che il caleidoscopico tramestio delle luci elettriche dei mall copre di rumore e frenesia.
Takashi aveva appreso, nella sua esperienza di paziente ricostruzione dopo la devastazione nucleare, che il Natale non è per i frenetici, ma ha un tempo di gestazione e avviene dopo una gravidanza. E questa parola, gravidanza, è un impasto evocativo di gravità (peso) e danza. È quello che fa un bambino in attesa di venire alla luce: si fa pesante, matura il suo peso, scopre di essere un corpo che può essere sostenuto e ospitato e a cui si rivolgono parole. Ma è anche un corpo che deve migrare oltre le acque che si rompono, nella realtà in cui la sua nudità di bambino sarà rivestita, in cui il suo peso può farlo cadere, in cui la sua danza – quella in cui si è esercitato nel segreto del grembo – sarà anche guardata, forse ammirata, dagli occhi di altri. Siamo nati e già incarniamo la speranza di qualcuno che ci ha atteso.
Noi usiamo la parola incarnare per dire tante cose: l’incarnato di un volto, cioè il colorito radioso e vivo della pelle, oppure qualcosa che è radicato in profondità (la passione per la musica trap in quella ragazza è proprio incarnata), oppure quando qualcuno rende tangibile nella sua persona un valore (quell’uomo incarna la quintessenza dell’eleganza). Un altro uso di questo verbo è riflessivo. Molte volte ho sentito dire e dirmi: Tu vivi di idee, ti devi incarnare! Chi usa il verbo incarnarsi in questo senso intende dire che bisogna lasciare l’idea e atterrare nella realtà, altrimenti si rischia l’opposto, cioè la dis-incarnazione, cioè perdere il polso della vita, quella vita che vibra nella nostra carne.
Ma per perdere la vita, bisogna prima averla. Come dice padre Guidaberto Bormolini, «il problema non è capire se c’è vita dopo la morte, ma se siamo vivi prima di morire!». La prima vittoria sulla nostra morte è decidere di nascere dove siamo nati, invece di correre altrove nell’ansia di arraffare la vita. Preferisco dire nascere dove siamo nati, perché solo Dio è maestro dell’incarnazione. Dio senza fine, ha scelto di confinarsi, cioè di avere fine con noi. Possiamo anche raccontarlo con parole romantiche, e non c’è niente di male, ma nascere è già iniziare a praticare l’arte di essere mortali. Per questo nelle icone la mangiatoia in cui Gesù nasce, tante volte ha la forma di un sepolcro. Il Natale non finge la verità, come nell’ultima pubblicità della coca cola creata con l’intelligenza artificiale, ma la rivela. Questa manifestazione della vita nella morte mi fa pensare a quando espiriamo aria calda dal nostro corpo in un luogo molto freddo dove non c’è molta luce: il nostro soffio si vede, anzi, più è freddo più l’aria si condensa. L’uomo è davvero come un soffio, canta il salmista. Ma non ferma il suo canto, e continua: Abbassa il tuo cielo e discendi, tocca i monti ed essi fumeranno. Con Dio incarnato, disceso, il soffio è ancora.
«Takashi sentì una voce che proveniva da chissà dove e che lo chiamava: Innalzate nei cieli lo sguardo, la salvezza di Dio è vicina. In quel momento capì che solo morendo completamente a sé stesso poteva essere salvato dalla mano amorosa dell’Onnipotente».
Quando rivolgiamo lo sguardo al cielo e chiediamo a Dio di discendere nella mangiatoia, nella nostra mortalità, noi muoviamo la testa dall’alto verso il basso e diciamo di sì al mistero dell’incarnazione. Dire di sì alla nascita significa già dire di sì alla morte: per questo Francesco univa i due misteri del Natale e della Pasqua, non temeva la morte del corpo e la chiamava sorella, e per questo celebrò l’eucaristia su una greppia.
Se scorgiamo l’affresco del Presepe di Greccio nella Basilica Superiore di Assisi, vediamo Francesco accogliere tra le sue braccia il Dio atteso, il bambino Gesù, ed è talmente sbilanciato su di lui, che con lui sembra cadere dentro la mangiatoia. La sapienza popolare questo lo ha assimilato dalle parole del santo vescovo Alfonso Maria de’ Liguori, autore della canzone Tu scendi dalle stelle. Verso la fine c’è una strofa che nella versione abbreviata non cantiamo: Deh, mio bello e puro Agnello, | a che pensi? - dimmi tu. | O amore immenso, "Un dì morir per te" – rispondi – | "io penso". E mentre solo noi siamo capaci di non vivere la vita ma solo pensarla (cit. Brunori Sas), quando Gesù pensa di morire per l’uomo, quel pensiero è storia che avviene. Lo diceva nel suo primo vagito, lo ha detto nell’ultimo fiato sulla croce.