Spiritualità

Di (s)porta in (s)porta: la questua dei frati nel III millennio!

venerdì 27 dicembre 2024 di fr. Andrea Gatto OFMCap
Come cambia il profilo della bisaccia del frate questuante nel nostro secolo?

            Le attuali Costituzioni dei frati cappuccini danno la precedenza al lavoro personale, il richiamo (costante nella storia del primo ordine) ad un uso moderato dei beni materiali e alla prioritaria destinazione di quanto abbiamo ai poveri (che costituiscono sempre e ancora l’opzione preferenziale di ogni apostolato): questa è la nostra testimonianza!

            Oggi la questua non è più praticata a spron battuto come un tempo, benché ancora si tenga viva in alcune realtà, anche metropolitane. Per quanto la disponibilità economica degli istituti religiosi sia maggiore che in passato, è generalmente ispirata al “minimo necessario”, solidali con la condizione dei poveri, vecchi e nuovi. In questa prospettiva, quindi, questuare è anche industriarsi a destinare per (il) bene le risorse: se posso ricorrere con fiducia alla generosità del Creatore per il mio sostentamento, tutto quello che ricevo di più potrò reinvestirlo in opere per gli altri, o in beni di necessità che non posso procurare con il mio lavoro o le mie forze. Nelle realtà rurali in cui sopravvivono i conventi, alcuni frati – ancora ben inseriti nel tessuto sociale – si prestano al servizio dei raccolti (grano, uva, olive), elemosinandone una parte per le necessità del convento. Si tratta di una questua propositiva, in cui il frate non si risparmia. Frati questuanti, ma non accattoni. L’accattonaggio, che tra l’altro è proibito dalle leggi dello stato, non è l’elemosina. Lo aveva chiaro Francesco: povertà è sorella come morte, non perché abbia per noi buoni sentimenti, ma perché nella sua bruttezza ha il dono di renderci fratelli, e insegna che anche la ricchezza può deturpare le nostre persone, perché crea bisogni surrogati. Simone Weil scriveva, tra i suoi pensieri: «[Francesco] non ha ricercato nella povertà il dolore, ma la verità e la bellezza, la poesia del contatto vero, conforme alla situazione umana nell’universo in cui ci troviamo».

Il pudore, quasi la vergogna, di chiedere solo per sé, coscienti che oggi non moriamo di fame, è un sentimento diffuso tra i frati: si è più disposti a questuare per le famiglie povere, per chi versa in una provata indigenza. Una antica tradizione lega i cappuccini alla cura dei poverissimi: i monti frumentari, come i monti di pietà, erano stati inventati a beneficio di tanti lavoratori agricoli piagati dall’usura; e a tale scopo i fratelli si recavano loro stessi a raccogliere i primi fondi di grano per avviare queste istituzioni sociali, vere e proprie banche dei poveri.

Vi sono anche altre occasioni oggi, in cui i frati imbracciano la bisaccia. Qualche anno fa, ad esempio, a Leonessa il restauro di una chiesa rupestre ha richiesto la questua delle tegole (i coppi) avanzate, gli scarti di costruzione; o, ancora altrove, l’usanza di portare al frantoio una ghirba dell’olio da destinare al convento, ciascuno condividendo una parte della propria spremitura. Così anche le cerche nei grandi mercati cittadini: si formano “rituali” di partecipazione, in cui i furgoncini dei frati (a Cagliari, per esemipo) fanno incetta di generose spese, una forma spontanea di colletta alimentare, oppure di offerte in denaro. Posta in condizioni di fare del bene, per il tramite garante del frate, la gente incrementa anche la qualità del proprio benessere, di un tipo che la psicologia chiama “eudaimonico”, non autoreferenziale, e che comunemente chiamiamo altruismo.

Su questo modo di servire, insomma, i frati non hanno mai smesso di incoraggiarsi, nonostante le condizioni di benessere attuali. La lettera del ministro generale Mauro Jöhri per l’indizione dell’VIII CPO sul tema del lavoro fraterno, l’ultimo in ordine di tempo, è stata indubbiamente un manifesto significativo. Fr. Mauro racconta delle esperienze di questua che lui stesso nel tempo della sua formazione iniziale negli anni ‘60 ha esperimentato, riflettendo anche sull’indebolimento del nostro legame con il popolo nei decenni successivi, cioè nell’ultimo passaggio dal mondo contadino a quello industriale e tecnologico. Quel tacito “patto” tra i frati e la loro gente veniva meno.

Il volto della Chiesa muta velocemente, e l’aderenza all’affetto popolare va consumandosi. Da una parte, l’istituzione si è difesa scollandosi dal popolo per mantenere il solido apparato della sua tradizione; dall’altro, è pure vero, che un popolo, in senso classico, non esiste più. C’è sì una società, ma il popolo si è disgregato nel grande, indifferente mare del soggettivismo.

Lo slogan della chiesa in uscita è la traduzione di un bisogno antico ma sempre valido di ricucire un dialogo vero con il mondo. Se l’ecclesiosfera non è più in grado di convogliare le persone nei luoghi di culto ordinari, è tempo di ritrovare l’alternativa della strada, nelle forme che già la storia ci ha suggerito. Ma chi li vede più i frati per le nostre strade?

La questua dei frati era una risposta adeguata: potrebbe esserlo ancora? Forse oggi, per ricominciare, c’è un primato che va salvato e difeso: quello della vita fraterna. Dentro quel social network che è il villaggio globale, i conventi potrebbero ancora essere gli hubs in cui un sentimento di popolo può ricostituirsi, e magari anche un nuovo welfare di mutuo soccorso. La questua riconnetteva la gente, creava reti comunitarie di assistenza. I frati non sono un branco (una setta), ma una famiglia di fratelli. La sociologia insegna quanto un gruppo di amici adulti arricchisca le esperienze sociali, allargando la capacità di relazione e di coesione. La gente si accorge delle loro connessioni, della familiarità non opprimente che li lega l’uno all’altro. Questo è anche quanto raccontano alcuni miei fratelli che ormai da tempo fanno l’esperienza di un cammino in provvidenza per le strade dell’Italia centrale, un’iniziativa che abbiamo chiamato Il Vangelo si fa strada. Per una libera scelta e per testimoniare la forma di vita francescana povera e lieta, alcuni frati partono nello spirito antico della mendicanza: mendicanti, del resto, è ancora il nome dato ai frati nell’Annuario Pontificio!

La fede è immediato affidamento alla vita e con-tatto con altri. I frati questuanti entravano nel focolare delle famiglie, con uno stile “deteologizzato”, privo di ogni pretesa di parlare di Dio, ma manifestandolo nel suo irriducibile mistero di presenza e conforto. Si sente spesso ripetere tra noi frati: solo lo se necessario, parlare. Mendicare cercando l’uomo, mendicare un ritorno di umanità, prima che del materiale bottino. Ad avviare nuovi processi, anzi a muovere le montagne, non può essere la preoccupazione di riportare in chiesa un popolo disperso; ma far leva sulla disposizione a stare insieme per la strada o sulla soglia delle case. Casa e strada sono il simbolo della nostra fragilità, di quanto abbiamo bisogno sia di camini che di cammini. È lì che ci ritroveremo tra gli uomini, per scambiare il pane della pace che fra Cristoforo ci ha lasciato in eredità.