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Sammy Basso: la malattia rara è la mia sfida

07 ottobre 2024
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È Sammy Basso, venticinquenne vicentino, il più longevo al mondo tra i malati di progeria (malattia rara che provoca un invecchiamento precoce), di cui l’Italia si è “accorta” nel 2015 quando fu ospite del Festival di Sanremo; ma che da ben prima, nonostante le previsioni inizialmente fatte dai medici sulla sua aspettativa di vita fossero ben più limitate, ha iniziato ad incidere positivamente sulla vita di tante persone. E, ne siamo certi, ancora lo farà.

Sammy, in 25 anni hai fatto molte più cose di quelle che tanti arriveranno mai a fare in molto più tempo: come ti rapporti con il fatto che la malattia da un lato ti sprona a impegnarti su molti fronti, e dall’altro ti limita?

La malattia non è né una condanna né un merito: è semplicemente una cosa che c’è e che può capitare a tutti. Sicuramente dal punto di vista scientifico e umano è da sconfiggere; e se potessi scegliere di guarire subito, lo farei. Però ammetto di non sapere se vorrei essere nato senza progeria: la malattia fa parte della mia vita, ha contribuito a formarmi, e non cambierei la mia esperienza per niente al mondo. Ogni vita ha le sue sfide, la mia è questa: la combatto, facciamo ricerca per questo, ma la progeria mi dà anche molte esperienze che cerco di sfruttare al massimo.

Parlando di ricerca, la pandemia ci ha mostrato come questa sia fondamentale; però ha anche esasperato molte posizioni “antiscientifiche”. Che cosa vorrebbe dire a chi le segue?


Vorrei prima di tutto far capire che c’è differenza tra scienza, scienziati e gestione di una pandemia. La prima è conoscenza, che può essere usata bene o male; i secondi sono uomini e donne, con i loro pregi e difetti; la terza ha a che fare anche con la politica. Sicuramente è stato uno sbaglio confondere i dibattiti in TV tra scienziati, che a volte sono caduti nell’arroganza, con quello che è il dibattito scientifico vero e proprio: perché chi scienziato non è può arrivare a credere che la scienza sia questione di opinione, e come tale appoggiare quella che ritiene più convincente. Basti pensare che a maggio scorso ci si lamentava che dopo tre mesi di pandemia ancora non si fosse trovata una cura, mentre adesso non ci si fida del vaccino perché è arrivato troppo velocemente. Ma la scienza si basa su dati certi, non su opinioni né su scoop di minoranze negazioniste che ritengono di avere la verità in tasca. E dico: se non credete alla scienza, credete almeno al buonsenso: perché è buonsenso dire che, se non avessimo avuto un sistema sanitario che nonostante i tagli ha tenuto, sarebbe stata un’ecatombe e che le case farmaceutiche, se davvero un concorrente mettesse in commercio un vaccino fallace, avrebbero tutto l’interesse a smascherarlo subito.

La pandemia ha anche messo in crisi la nostra idea di “normalità”: che cos’è la normalità per te, che per tutta la vita ti sei confrontato con una situazione eccezionale?

Sì, in effetti la normalità non so cosa sia; però questa perdita di quella che era la normalità ci fa capire l’enorme valore della diversità. Anch’io, pur con i miei limiti, davo per scontate cose come uscire con gli amici o fare qualche viaggio; e ora mi sono reso conto che ci sono persone che, per tanti motivi, vivono sempre in lockdown, senza poter lasciare la loro casa. E questo deve farci riflettere su che cosa ognuno di noi può fare in questo momento, vivendo con senso civico.

Hai citato la tua passione per i viaggi: sicuramente non si può non parlare di quello che hai fatto sulla celebre Route 66 negli Stati Uniti, durante il quale ti è anche stato dato un nome Navajo. Ci racconti com’è andata?

Eravamo nella Monument Valley, in una giornata eccezionale: ossia appena dopo l’unico giorno di pioggia l’anno che mediamente vede quella regione, che aveva donato un colore rosso incredibile e due arcobaleni che si incrociavano. Per i Navajo dare il nome è molto importante, perché significa accogliere nella tribù: per questo la nostra guida mi ha fatto il regalo più bello dandomi il nome di Chaànaàgahiì, che significa “uomo che ha ancora tanta strada da fare”.

Parlando di strada da fare, a che punto è l’attività di ricerca sulla progeria, promossa anche dall’Associazione da te fondata?

Naturalmente con la pandemia abbiamo cancellato tutti gli eventi di raccolta fondi, ma abbiamo continuato la promozione sui social. E la vicinanza si è fatta sentire, con tanti che hanno contribuito anche con il 5x1000. In quanto alla ricerca, ricorderò il 2020 non solo per la pandemia ma anche per i risultati straordinari ottenuti, in particolare l’approvazione del primo farmaco contro la progeria: questa volta, a differenza del vaccino anti-Covid per il quale già disponevamo di ampi studi su altri Coronavirus, siamo partiti da zero e ci sono voluti 11 anni. E il bello è che è un farmaco che era stato pensato contro il cancro, a dimostrazione di come la ricerca sia una cosa “orizzontale”: non dobbiamo mai credere che gli studi in un certo campo non ci riguardino, perché possono aprire strade anche in altre direzioni. Per fare un altro esempio, il ruolo dell’infiammazione nell’invecchiamento, oggetto degli studi sulla progeria, torna utile nel caso dell’infiammazione causata dal Covid-19. Nel 2021 poi sono iniziati gli studi sulla terapia genica per la progeria, che se si concluderanno positivamente costituiranno la soluzione definitiva.

E la strada invece che intende fare Sammy nel futuro?

II mio primo obiettivo adesso è la seconda laurea [l'ha poi ricevuta il 24 marzo scorso, ndr]. Poi mi prenderò un po’ di tempo per capire che direzione prendere.

Più volte, in interviste passate, hai parlato del ruolo della fede nella tua vita: che cosa puoi dirci in proposito?

Diciamo che la mia fede è anche visibile, nella misura in cui porto sempre il Tau al collo! Potrei raccontare qualsiasi cosa della mia vita, ma se non parlassi della mia fede non direi nulla, perché per me è punto di partenza e di fine. Non è un’ancora di salvezza, anche se a volte finisce per esserlo: è prima di tutto una base su cui costruire il resto, cercando semplicemente di vivere da bravo cristiano. Dio è una cosa così grande che non lo posso descrivere; ma mi piace pensare ad un Dio che ci vuole simili a lui, ma per amore è diventato simile a noi – gioendo come gioiamo noi, soffrendo come soffriamo noi, e morendo come moriamo noi. Un Dio paradossalmente molto umano! San Francesco in particolare, poi, ci ha delineato una bellissima strada nel ringraziare per tutto, anche per quelle che dal punto di vista umano sono imperfezioni, riconoscendole come parte della vita: e questo mi è stato di grande aiuto nel lodare Dio anche nella malattia. Mi piace san Francesco perché non si è spogliato solo delle sue vesti esteriori, ma anche di quelle interiori: mostrandosi per quello che era, poteva vedere il mondo per quello che era.

Infine, un consiglio per tutti coloro che si trovano a crescere un bimbo ammalato: come spiegarlo al piccolo?

Non c’è una “ricetta perfetta”, ma mi rifaccio all’esperienza dei miei genitori: non mi hanno mai nascosto nulla, dicendomi le cose con modi sì diversi in base alla mia età, ma sempre sinceri, che non significa brutali. Sono cresciuto sapendo di essere ammalato, ma anche sapendo che la malattia è una cosa naturale e che è solo una parte di ciò che io posso essere. Nasconderla sarebbe far sentire un bambino tradito dalle persone di cui più si fida.

Intervista tratta dal Mensile di Frate Indovino - Maggio 2021
di Chiara Andreola

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