Sto pregando inutilmente?
Caro fra Carmine,
sono un vecchio abbonato e ho un’età avanzata. Ho avuto una formazione cattolica che potrei definire tradizionale e solida. Ogni sera mi faccio l’esame di coscienza e recito le preghiere che mi hanno insegnato i miei genitori: “Padre nostro”, “Ave Maria” e “Credo”. Recentemente papa Francesco ha detto che stare in preghiera non significa dire parole e parole, ma significa aprire il cuore, avvicinarsi a Gesù. Cosa significa? Le preghiere che ho appreso da bambino sono inutili e vuote?
Un augurio di ogni bene a lei e agli amici di “Frate Indovino"
Gentile lettore,
percepisco che le parole di papa Francesco l’hanno particolarmente colpita e, pur senza accorgersene, ha già avuto risposta alla sua domanda, che mi permetto semplicemente di mettere meglio in luce. Papa Francesco dice il vero quando afferma che la preghiera consiste nell’aprire il cuore a Gesù, piuttosto che nel ripetere parole. Difatti non sono tanto queste ad avere effetto su Dio, quanto l’intenzionalità che le accompagna! Si possono usare le parole più belle con l’intento di compiacersi, piuttosto che di raggiungere l’anima dell’altro, e questo può succedere tra innamorati, ma può accadere anche con Dio nella preghiera.
Per questo Gesù esorta a non moltiplicare inutilmente le parole come i farisei, ma piuttosto invita a pregare dicendo semplicemente “Padre nostro”. Immagino, pertanto, che nel dire le sue preghiere, lei cerchi nient’altro che “aprire il cuore a Gesù” e manifestarsi a Lui, per entrare in relazione con Lui, fosse pure con la modalità semplice e genuina che le è stata trasmessa dai suoi genitori. Nel pregare con le formule apprese da bambino lei ritrova indirettamente il clima affettivo nel quale ha imparato a rivolgersi a Dio e questo le permette di coltivare e rinsaldare il legame con il Signore, come pure il vincolo di comunione con i suoi cari.
Quindi le parole, anche quelle della preghiera, riescono sempre condite del vissuto che le ha generate, ragion per cui non sono mai “inutili e vuote”! Semmai, possiamo considerare che la qualità della preghiera può migliorare nella modalità con cui la esprimiamo, perché non è indifferente il modo con cui “diciamo” le preghiere. Alle volte una recita meccanica ha bisogno di recuperare il calore mettendoci più cuore, oppure un modo distratto e superficiale può crescere in consapevolezza quando impara a prestare maggior attenzione alle parole che si dicono e soprattutto a Colui al quale le rivolgiamo.
Mi risuona dentro la testimonianza di san Francesco d’Assisi, che calza col nostro discorso: quando pregava il Padre nostro, sostava a lungo sulle singole parole per interiorizzare fino in fondo il significato di ciò che diceva e per stare più consapevolmente al cospetto di Colui col quale parlava. Quindi non sono le formule in sé ad impedire una modalità più personalizzata di pregare – a maggior ragione quando utilizziamo la preghiera formulata dallo stesso Gesù nel “Padre nostro” – quanto la partecipazione interiore che esprimiamo nel raccoglimento e nel tempo che dedichiamo alla preghiera stessa. Sono questi ingredienti che permettono di vivere con partecipazione la relazione con il Padre che si compie sempre per azione dello Spirito Santo che opera in noi che siamo in comunione con il Figlio Gesù.
Così come la vita umana e relazionale palpita nel dialogo e nella comunione d’intenti ricercata e vissuta, la vita nello Spirito si alimenta nella dedizione a Dio coltivata mediante la preghiera e le buone opere che ne derivano. Saranno certo le formule o le effusioni che ridondano per abundantia cordis (pienezza del cuore), ma in ogni caso già trattenersi con Lui genera una comunione di vita per noi salvifica.
P.S. Suggerisco per una lettura di approfondimento Jean Lafrance, La preghiera del cuore, Qiqajon, 2015.