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Frate Indovino

Cura del Creato

IL SENSO DELLA VITA

08 febbraio 2024
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Il senso della vita umana dipende totalmente dall’idea che si ha di essa: se si pensa, cioè, che essa è frutto del caso e di oscure leggi della natura, o se si crede che è opera di un Dio creatore intelligente e buono. Nel primo caso, la vita non ha altro senso che quello che ognuno riesce a dare a essa; nel secondo, la vita ha il senso che ha pensato Colui che gliene ha fatto dono.

Penso che la maggioranza – se non la totalità – di coloro che leggeranno queste riflessioni appartengano alla seconda categoria. È utile, tuttavia, dare uno sguardo al panorama frastagliato che si presenta nella prima categoria. Una cosa è comune a tutti costoro: l’anelito a vivere “bene”. Appena si cerca di capire cosa si intende per “bene”, si prospettano due classi di uomini: quelli che pensano solo al bene materiale e personale e quelli che pensano anche al bene morale e di tutti.

Non occorre dilungarsi a descrivere i primi. Il mondo intorno a noi ce ne offre esempi fin troppo lampanti di persone che cercano in maniera sfrenata la ricchezza, che ricercano i piaceri terreni fini a sé stessi e che – in modo particolare – bramano il potere, il desiderio più pericoloso. Da questo punto di vista, il mondo non è cambiato dal tempo di Isaia e di san Paolo se non nelle proporzioni che il progresso umano e la tecnica hanno nel frattempo ingigantito. Entrambi riportano il detto che correva ai loro tempi: “Mangiamo e beviamo perché domani moriremo” (1Corinzi 15,32). In questo campo, la cosa più necessaria per noi credenti non è di dilungarci nella diagnosi e nella denuncia di quello che avviene intorno a noi, ma semmai di prendere coscienza di quanto anche noi credenti – in misura diversa e in forme forse più sottili – siamo, come tutti, attaccati ai beni di questo mondo: denaro, piacere, prestigio, potere.

Più interessante è cercare di capire quelli che si propongono – almeno come ideale – di non perseguire solo il “bene” materiale proprio, ma anche quello morale e di tutti. Esistono dei siti esteri in internet in cui si intervistano persone anziane su come, giunti al tramonto, vedono la vita che hanno vissuto. Sono in genere persone che appartengono a questa seconda categoria: uomini e donne che hanno vissuto una vita ricca e dignitosa, al servizio della famiglia, della cultura e della società, ma senza alcun riferimento religioso. È patetico il tentativo di far credere di essere stati felici: la tristezza di aver vissuto e a breve di non vivere più, nascosta dalle parole, grida dai loro occhi!

Sant’Agostino, in un discorso al popolo, ha espresso con poche parole il nocciolo del problema: “A che serve vivere bene, se non è dato vivere sempre?”. Prima di lui, Gesù aveva detto: “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde e rovina sé stesso?” (Luca 9,25). Ecco dove si inserisce – e in che cosa differisce – la risposta della fede. Essa ci assicura che Dio ci ha creati per la vita, non per la morte; che Gesù è venuto a rivelarci la vita eterna e a darcene la garanzia con la sua risurrezione dalla morte.  

La fede dà così una risposta all’anelito che c’è in fondo al cuore di ogni persona e che invano l’orgoglio umano tenta di nascondere. Un noto filosofo spagnolo del secolo scorso, Miguel de Unamuno, che non si professava apertamente credente, a un amico che lo criticava per il suo tormentarsi con il problema dell’eternità, così rispose in una lettera: Non dico che meritiamo un aldilà, né che la logica ce lo dimostri, dico che ne abbiamo bisogno, lo meritiamo o no, e basta. Dico che ciò che passa non mi soddisfa, che ho sete d’eternità, e che senza questa tutto mi è indifferente. Senza di essa non c’è più gioia di vivere... È troppo facile affermare: «Bisogna vivere, bisogna accontentarsi di questa vita». E quelli che non se ne accontentano? Non è chi desidera l’eternità che mostra di non amare la vita, ma chi non la desidera, dal momento che si rassegna così facilmente al pensiero che essa debba finire.

La cosa più inquietante in questo campo è quando si arriva a condannare lo sforzo stesso di dare un senso alla propria vita. Non faccio il nome perché è ancora in vita, ma qualche decennio fa un nostro intellettuale italiano scriveva queste parole: “Passata la nostra generazione e forse quella dei nostri figli, nessuno più considererà il bisogno di dare un senso alla vita un problema davvero fondamentale. La tecnica ha portato la religione al suo crepuscolo”. La “sua generazione” (che è anche la mia!) è già passata e quella dei figli è a buon punto; ma, come si vede, siamo ancora qui a interrogarci ostinatamente sul senso della vita.

Una cosa si deve sottolineare per non cadere in un pericoloso equivoco. Vivere “sempre” non si oppone al vivere “bene”, anzi è la prospettiva che rende bella, o almeno accettabile, anche la vita presente. Tutti, in questa vita, abbiamo la nostra parte di croce, credenti e non credenti. Ma una cosa è soffrire senza sapere a che scopo, e un’altra soffrire sapendo che “le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi” (Romani 8,18).

Card. Raniero Cantalamessa OFMCap

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